- Intro
- Falso, vero e verosimile
- Simbolo e quotidianità : le cose piccole.
- Che possiamo imparare?
- Concludiamo? Concludiamo.
- per approfondire
Quando la bicicletta del Signore che portava il suo messaggero con un telegramma per Sister Mary Bradley, con scritto “vieni a casa”, arrivò al 113 West della 134° strada a New York, Sister Mary disse “ragazzo, riporta indietro quel telegramma dritto a San Pietro, perché non sono pronta per venire. Sarò magari un po’ debole, ma non sono per niente stanca”.
E si rifiutò persino di firmare il messaggio.
Intro
Vuoi per coincidenza, vuoi per destino, l’opera ibrida di Roy DeCarava e Langston Hughes si apre con una bicicletta. Non esiste libro migliore per inaugurare questa serie di articoli su testi e autori da cui imparo qualcosa sulla fotografia.
Quindi eccoci qui: vediamo di che si tratta, esploriamo alcuni temi e cerchiamo di capire come possono tornare utili quando siamo in sella. Sweet flypaper of life è un’opera singolare, anzi unica, il cui testo inizia direttamente sulla copertina. Ed è un testo preziosissimo per esplorare le diverse possibilità di storytelling, anche applicate all’ambito ciclistico. A proposito, qui c’è il video con il testo completo.
The Sweet Flypaper of Life (chiamiamolo SFOL d’ora in poi) – cioè “la dolce carta moschicida della vita”, è questa la metafora scelta dagli autori – è un poema su persone e luoghi ordinari: ragazzini intorno a un jukebox, bambini intorno a un idrante aperto; la metropolitana da soli di notte, picchetti a lavoro, atelier di artisti.
SFOL è un’opera minore, un libricino di circa 100 pagine con 140 fotografie in bianco e nero impaginate in modo poco ortodosso e accompagnate da un lungo testo: un monologo di Sister Mary Bradley, che racconta la vita della sua famiglia tra figli pigri, matrimoni più o meno riusciti, vita di quartiere, lavoro. Le foto, un mix di street, ritratti e altre scene varie, sono di Roy DeCarava (1919-2009), famoso fotografo della scena jazz newyorkese e primo afroamericano ad avere una borsa Guggenheim, che tra gli anni ’40 e ’50 ha documentato la vita quotidiana nel suo quartiere, Harlem.
Falso, vero e verosimile
La sua visione – almeno in questo piccolo capolavoro – non è politica o sociale, ma esistenziale; infatti non si considera un fotoreporter, bensì un artista che indaga semplicemente la vita umana (per il resto, DeCarava è molto cosciente del rapporto tra politica e fotografia specialmente in relazione alla sua identità afroamericana, ed è anche attivo su vari fronti; vedi l’intervista del 1990 su Callaloo). Lo dice lui stesso:
“I’m not a documentarian, I
never have been. I think of myself
as poetic, a maker of visions,
dreams, and a few nightmares.”
In modo opposto ai fotografi della Farm Security Administration, per esempio, DeCarava non cerca l’oggettività assoluta, e anzi critica la sua ricerca; il che è già utile per noi che cerchiamo di raccontare storie di bici dall’interno, mentre le viviamo sulla pelle. DeCarava rivendica fortemente questa soggettività:
Le foto “hanno qualcosa di me. La domanda è ‘quanto c’è di me nella fotografia?’ Io cerco di mettere il più possibile di me stesso nella foto, perché è questo l’argomento. Non è tanto l’oggetto in sè, quanto la mia relazione al soggetto” [1990].
SFOL estende questo concetto a tutta la narrazione: per raccontare la sua storia, Decarava affida le sue foto – centinaia, accumulate negli anni – all’amico scrittore Langston Hughes (1901-1967), artista, giornalista, poeta e altra figura di spicco della Harlem Renaissance. Questi assembla un racconto scritto di fantasia che abbina a una selezione personalissima di foto.
Il risultato è una narrazione in cui foto e testo si sostengono a vicenda: le parole sono didascalia alle foto, ma portano anche avanti la narrazione, che a sua volta è spiegata dalle immagini. E’ una simbiosi perfetta, che crea un’atmosfera sospesa tra realtà e finzione: è evidente che le storie che si intrecciano nelle cento pagine sono assolutamente plausibili, anche perché ogni foto ritrae vicini e conoscenti; ma la loro successione non lo è, e insieme compongono una storia fittizia: verosimile, ma non vera. Storie potenziali, perfettamente adatte al contesto, ma mai avvenute.
In pratica, più che una storia è un simbolo. Il che è fantastico, dato che il simbolo è, per natura, soggettivo: sta al lettore rimandarlo a qualcosa, e quindi ognuno di noi lo può ricondurre a un vissuto reale. Questo in realtà vale per tutto, infatti si dice spesso che la fotografia “è negli occhi di guarda”. Sarà vero?
Prendiamo questa foto di bici piuttosto basic, che ho scattato a settembre 2023 alla 150 smiles. C’è chi penserà “toh, ho le stesse calze”, qualcun altro ricorderà quella volta che si è preso il diluvio, altri al fatto che devono pulire il movimento centrale. Qualcuno sospirerà sognando la prossima avventura. In pratica, una foto abbastanza “oggettiva” evoca cose diverse in ciascuno.
OK, abbiamo infinite interpretazioni di una cosa. Tutto giusto, tutto bello, e poi? Primo, DeCarava – anzi, questa volta è il suo amico Hughes che mette in prosa tutta Harlem – ci guida lungo una sola delle narrazioni possibili, quindi restringe il campo. Non lascia che ci perdiamo nella fantasia, andando a finire da nessuna parte. Ci parla di una donna, della sua famiglia, dei figli, delle nuore, dei nipoti, del pendolare in metro, della musica che ascoltano. Ci appassiona perché è una storia. Nel loro insieme, e anche grazie allo stile molto familiare di Hughes, che scrive un monologo-diario, le foto diventano una storia simbolica della quotidianità di tutti, con mille accenni, spunti, personaggi. Ognuno può rivivere qualche ricordo o recuperare qualche sogno, e tutti ci identifichiamo in qualche modo in quella storia che pure non è vera.
Questo funziona perché -ed è la cosa importante- le immagini hanno grazia; sono belle, sono buone, funzionano. Alcune sono commoventi, altre drammatiche, ma in generale sono foto semplici. Anche su questo aspetto c’è tanto da imparare. Non sono perfette, non c’è la composizione a effetto di Steve McCurry, né la stratificazione incredibile di Alex Webb, né l’istante decisivo. Molte sono imperfette, mosse, troppo buie; eppure si guardano con piacere.
Simbolo e quotidianità : le cose piccole.
Interrogato su questo aspetto evocativo, DeCarava tira fuori una risposta banale, che però ci porta verso un altro tema:
“Certo, il mio lavoro è molto spirituale. Non è sulla materia, la materia è lo strumento con il quale esprimo la mia spiritualità. Prendo il tangibile per presentare l’intangibile. Questo è lo spirito dell’uomo, è lo spirito di molte, molte, moltissime cose, moltissimi momenti. […] Questa è la grazia dell’essere umano, che possiamo trascendere la nostra natura corporea e diventare qualcos’altro, qualcosa più grande di noi.”
Per attivare questo meccanismo del simbolo, non può parlare dello straordinario, di conquista e di vittorie: parla dell’ordinario, delle cose piccole, evocative per ognuno di noi. SFOL è una raccolta del quotidiano, scene in casa o per strada. Potrebbe essere anche essere un affresco dell’Italia della stessa epoca: alcune immagini del libro mi fanno pensare a C’è ancora domani di Paola Cortellesi, perché in fondo la vita di ogni giorno è simile più o meno ovunque.
Il mio lavoro riguarda quello che considero essenziale. Il sole, il tempo, la pazienza, aspettare a sufficienza. […] Il mio lavoro non riguarda la forza, non riguarda la conquista. […] Molte delle opere grandiose sono realizzate per sopraffarti. Sono aggressive. Sono bei lavori, se ti piace l’aggressione. Ma sono fatti per assumere il controllo, dominarti. Per me non è soddisfacente. Voglio che le persone vengano perché ne hanno voglia, e vadano perché ne hanno voglia.
Ecco, basta affiancare questa dichiarazione a una di Camille J MacMillan, fotografo del ciclismo professionale, veterano dei vari Tour de France e delle 6 giorni dei velodromi. Anche lui non racconta la conquista o la forza, e preferisce concentrarsi sulle piccole storie in ombra; gli atleti che si cambiano dietro a un furgone, o che si rilassano dopo la gara.
“C’è di più nel ciclismo che lo scatto epico – il ciclista solitario sul passo montano, bla bla bla… Andiamo a raccontare qualche storia vera”.
Magari più in là parleremo di MacMillan, fotografo contemporaneo molto interessante. Sicuramente il suo consiglio è da seguire, andiamo a raccontare qualche vera storia – o magari verosimile.
Che possiamo imparare?
Intanto, dopo tutti questi ragionamenti sul vero, sul simbolo e sul quotidiano, cosa tiriamo fuori da SFOL per la nostra fotografia ciclistica?
- Primo, la combinazione di testo e foto realizzata in questo modo – foto vere e testo verosimile – è praticamente unica nel panorama della fotografia, ma è un’opzione molto interessante per raccontare un viaggio. Non facile, sicuramente, ma affascinante. Per il resto, vogliamo fare i filosofoni? Diciamo pure che SFOL ci può insegnare come andare oltre al dualismo soggettivo/oggettivo per arrivare a qualcos’altro, il verosimile; ed è questo che è importante, perché è più poetico e narrativo del reale.
- Secondo, l’attenzione per le cose minori, quotidiane, piccole è un tema molto presente nei fotografi che conosco, e in cui mi riconosco (con le dovute proporzioni). Le situazioni triviali e normali offrono tanti spunti narrativi, a condizione di riuscire a raccontarli efficacemente; e soprattutto parlano a tutti, mentre le situazioni eccezionali – il ciclista solitario sul passo montano – sono, come dice l’americano, “aggressive”: hanno un impatto forte e un effetto “wow” assicurato (magari parleremo anche di questo e del sublime), ma poi ci raccontano poco o nulla.
- Terzo, anche se non ne abbiamo parlato: l’aspetto progettuale. DeCarava affida il suo patrimonio di foto accumulate, e gli chiede di dare un senso. Non c’è un reale progetto a monte, è tutto a posteriori. Anche questo è interessante: magari ci sentiamo manchevoli perché non fotografiamo secondo un progetto, ma la realtà è che possiamo anche esaminare il nostro archivio di foto e scoprire fili conduttori interessanti. Spesso questi temi dicono tanto di noi, di come percepiamo le cose più che delle cose stesse. Alla fine aveva ragione DeCarava.
Concludiamo? Concludiamo.
E lo facciamo dicendo quello che avrei dovuto scrivere subito, cioè che prima di tutto SFOL è un libro bellissimo, ironico, esistenzialista, ottimista. A partire dalla metafora della carta moschicida, la vita che ci condanna e a cui vogliamo restare appiccicati nonostante tutto.
Se ti interessa, qui c’è SFOL di seconda mano.
Vuoi mettere in pratica le tue idee?
A fine settembre, e precisamente il 27-28-29, organizzeremo un bel workshop sullo storytelling di ciclismo, in collaborazione con i mitici Augusta e Luca di Casa Bart, con due uscite in bici Luca e tre pomeriggi/serate di talk, briefing e discussioni. Sarà un fine settimana molto intenso di approfondimenti di temi, autori, chiavi narrative, tecnica, logistica; sarà possibile provare un po’ di materiale, e usciremo con Luca alla scoperta del patrimonio della Valle Maira. Il tutto con tanto cibo, ça va sans dire!
Ci sono pochi posti, sarà una cosa intima e familiare, oltre che proficua e divertente! Per info, contattami al +39 392 1599817, oppure contatta direttamente Casa Bart:
info@casabart.com
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per approfondire
- africanah.org
- MOMA
- Wiki: langston hughes
- david zwirner
- The guardian
- intervista del 1990
- c’è anche qualcosa in italiano! fotografiaartistica
3 pensieri su “Storytelling: falso, vero e verosimile. The Sweet flypaper of life (1955).”